Com’è profondo il mare

“Ciao Drina.”

“Buongiorno Signora. Scusi il ritardo ma Jenice ha la febbre – sa, a scuola prende di tutto – e ho dovuto aspettare che tornasse mio marito”.

“Non preoccuparti. È solo mezz’ora. Mamma ha mangiato un po’ ed ora dorme. Stamane era tranquilla. Magari, se riesci, stira quel che c’è nella cesta e pulisci la cucina. Tornerò tra un paio di ore”.

“Va bene, Signora”

“I soldi sono al solito posto”.

“Grazie Signora. Buona passeggiata. A dopo.”

“Ciao Drina”.

Cecilia indossò la giacca a vento e un berretto. Mise le cuffie e uscì di casa. Dopo pochi minuti camminava lungo la battigia. La primavera era agli inizi ma faceva ancora freddo.

Ormai da mesi questo era il suo rituale. Era andata in pensione l’anno prima, decenni di un lavoro anonimo: guardava carte che arrivavano da una scrivania, transitavano sulla sua e passavano ad un altra. Un giorno Giovanni, suo marito da 25 anni, che passava carte ad un livello superiore al suo, le disse che non l’amava più, ed era andato a vivere con una donna più giovane. Lei gli aveva dato la sua benedizione.

Del resto chi era quel uomo dal grande ventre, con una traccia indecifrabile di capelli, che la costringeva a guardare tutto quello che riguardava, seppur remotamente, il calcio. Quel uomo che esigeva piatti sanguinolenti di carne ogni giorno, che ogni giovedì aveva lo scopone con gli amici, che leggeva due libri all’anno – biografie di calciatori – e che passava il mese di ferie a casa “perchè tanto c’è il mare e la gente viene qui in vacanza” e le concedeva un po’ di respiro solo quando usciva a pescare? 25 anni con questo mammut sulle spalle. Ora l’aveva passato alla giovane moldava: auguri, mia cara. L’unico fastidio era il dover far la spesa da sola e sollevare i sacchetti pesanti o le confezioni d’acqua; ma aveva deciso di fare spese più limitate e magari più frequenti, spese che sarebbero state comunque più leggere non dovendo più contenere i quarti di bue per Giovanni.

Che strano. Perché si era ficcata in quel rapporto? Era stata una donna piuttosto gradevole, un magro un po’ nervoso ma quel che piaceva agli uomini aveva le giuste dimensioni. Aveva occhi neri, grandi e profondi che sembravano truccati anche quando non lo erano e i capelli castano chiari che facevano da sfondo ad un ovale  marcato. Si era diplomata in lingue, amava leggere. Sì, non aveva avuto figli mentre Giovanni sbavava alla vista di una carrozzina. Lei aveva accettato la cosa senza troppi problemi: la popolazione mondiale era già eccessiva. Avevano preso un cane, un cucciolo dal canile.

Lei avrebbe voluto chiamarlo Giorgio, il nome del suo primo amore, un amichetto dell’asilo. “Sì, brava. Così,quando lo chiami, si gira tutto il paese!”. Per una volta Giovanni aveva ragione e decisero per Ginko che era immediatamente assurto al ruolo di Managing Director di quella loro strana associazione. Era il depositario del loro affetto, delle loro attenzioni, che ricambiava senza sosta: finiva i buoi che Giovanni non riusciva a mangiare, leccava continuamente entrambi  e faceva sì che la tintoria non restasse mai senza lavoro saltando loro addosso incessantemente. Insomma Ginko era, definendolo alla George Steiner, “una vera presenza”.

Ma anche le presenze, prima o poi, si assentano e Ginko, dopo dodici anni di leccate e salti, e dopo aver aiutato a sterminare mandrie di armenti, aveva lasciato questa valle di lacrime due anni prima e lei era rimasta sola. Aveva affittato il suo appartamento, il suo non di Giovanni, ed era tornata a vivere con la madre che, più o meno quando lei era andata in pensione, aveva deciso di ri-fagocitarla esibendo una galoppante demenza senile.

La solitudine non le pesava eccessivamente; sì, certo, ogni tanto avrebbe voluto dire a qualcuno “Guarda che bello” o “Ascolta che meraviglia”, “Leggi e dimmi che ne pensi”, ma i venticinque anni con Giovanni avevano piallato molti dei suoi aneliti comunicativi e l’altro era proprio “altro”. Aveva iniziato, come milioni delle sue coetanee, ad occuparsi di ecologia anche perchè questa era una voce che urlava talmente forte da rendere impossibile fingere di niente. Aveva smesso di mangiar carne, riciclava, era insomma attenta al mondo.

Fra tutte queste meditazioni, interrotte ogni tanto dalla raccolta di una bottiglia di plastica, un contenitore, un bicchierino – usciva sempre con un sacchetto nel quale metteva i rifiuti che trovava sulla spiaggia – aveva raggiunto il tronco abbandonato, come una strana panchina, che stabiliva il limite della passeggiata e l’inizio del ritorno. Si sedette e iniziò, come faceva sempre, ad osservare e sentire il mare. All’orizzonte era di un verde cupo, polveroso, ma, più vicino alla riva, diventava marrone, grigio fumo, con striature color aviazione, ma di una divisa dismessa. La spuma bianco sporco movimentava quella massa uguale e sempre diversa che si ripeteva, rinnovandosi ogni momento, da milioni di anni. Era cosi spaventosamente familiare. Dai suoi studi adolescenziali emerse il verbo “longing”, anelare. Lo sentì mescolarsi nella testa con il rumore del mare.

Dopo pochi minuti sentì nelle orecchie la parola “mare”: in una strana coincidenza Lucio Dalla stava cantando “Com’è profondo il mare”. Assonanze, assonanze.

L’uomo sembrò sbucare dal nulla. Indossava una tuta e un berrettino. Le sorrise e si sedette sull’estremità del tronco. Era evidentemente uscito a correre ed ora si riposava. Cecilia annusava aria di mare frammista a sudore. Era un uomo alto, dal fisico sportivo e il viso gradevole. Rimasero  in silenzio per una decina di minuti: Cecilia assorta nel mare e nella musica, lui intento a riprendere fiato e a raffreddarsi.

“Bellissimo” disse lui, “Sì” rispose Cecilia. Forse entrambi immaginarono, per qualche secondo, una possibilità. Senza guardarsi si sentivano, si misuravano, istintualità antica. Cecilia pensò per un attimo ad una spesa a quattro mani, vide un cucciolo che saltellava lungo il mare e pensò ad un abbraccio ed un “buonanotte” in un’intimità, forse, da troppo tempo assente. Poi lo sconosciuto commise un errore: si accese una sigaretta e gliene offerse una. Lei lo ringraziò rifiutandola, ma in quel semplice “No grazie, non fumo” era condensata una minuscola delusione, un velo di tristezza, la sua irrinunciabile e, a volte, insopportabile coerenza. Non avrebbe mai potuto accettare un uomo che “avvelenava” il pianeta.

L’uomo tornò a guardare il mare, avvolgendosi nella propria delusione. Poi, infilò il mozzicone nella sabbia, si alzò lentamente e, con l’ombra di un sorriso sulle labbra, la guardò in silenzio per un attimo “Arrivederci”.”Arrivederci” rispose Cecilia in tono asettico.

Aspettò che si allontanasse, si alzò, sì avvicinò al mozzicone, lo raccolse, lo mise nel sacchetto e si avviò verso casa.

da “Racconti di fumo” di Francesca Cesati